La seconda metà del Settecento costituisce il periodo nel quale si gettano le basi del mondo contemporaneo, grazie alla diffusione del movimento illuministico che penetra in tutti i campi dell’attività intellettuale, influenza la vita politica, incide sui comportamenti culturali e sul costume.
Gli illuministi valorizzano al massimo la ragione e, guidati dai lumi della ragione, affrontano ogni problema, rifiutando tutto ciò che nella realtà storica è fondato su tradizioni, superstizioni, autorità e privilegi. Gli illuministi non si limitano a contestare le istituzioni e i valori dell’ancien régime, ma propongono anche un nuovo tipo, un nuovo modello di uomo, che si caratterizza per la co-stante laboriosità, intraprendenza, abitudine a contare sulle proprie forze e sul proprio lavoro.
Le idee illuministiche coincidono con le aspirazioni della classe borghese che specialmente in Francia ha raggiunto un notevole potere economico, ma non partecipa alla gestione dello Stato, dal momento che solo la nobiltà e il clero detengono cariche pubbliche e privilegi. In seguito furono proprio le aspirazioni politiche della classe borghese sulla spinta delle idee illuministiche a dar vita alla rivoluzione. L’abbattimento della Bastiglia, prigione per i reati politici, simbolo dell’assolutismo, il 14 luglio 1789, dà inizio alla Rivoluzione francese e la successiva Dichiarazione dei diritti concretizza alcune tesi fondamentali del dibattito illuminista: la sovranità nazionale, l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, la libertà di pensiero e di parola. Le lotte dei vari gruppi rivoluzionari in contrasto tra di loro porteranno all’affermazione politica della classe borghese, che ridurrà le iniziali dichiarazioni di libertà e di uguaglianza per tutti all’affermazione e alla codificazione della propria ed esclusiva libertà. Le altre istanze e posizioni più radicalmente democratiche ed egualitarie che andavano ben oltre gli obiettivi borghesi sono per ora destinate alla sconfitta, ma riappariranno in futuro e con ben altro peso.
Alla fine le istanze di libertà e di uguaglianza della Rivoluzione furono tradite dal colpo di Stato del 18 brumaio del 1799 di Napoleone che fonderà uno stato autoritario ed accentratore.
Il successo della Rivoluzione Francese suscitò grandi entusiasmi, ma altrettante ostilità in tutta l’Europa. Le monarchie europee tentarono di reprimere la diffusione delle nuove idee, adottando una politica di inasprimento dell’assolutismo, abolendo le concessioni riformatrici e accentuando il regime poliziesco. Al contrario la borghesia europea, nutritasi delle grandi idee di libertà e di progresso illuministiche, guardava con entusiasmo all’esperienza francese e attendeva da essa un aiuto per combattere i regimi autori-tari che impedivano lo sviluppo politico, eco-nomico e civile del proprio paese.
Anche in Italia gli intellettuali e i borghesi riformisti accolsero con entusiasmo le idee rivoluzionarie che ac-compagnavano l’avanzata dell’armata napoleonica e parteci-pavano attivamente alle repubbliche create da Napoleone, le cosiddette repubbliche sorelle. Nasceva così la Repubblica Cispadana e la Repubblica Transpadana in Lombardia, poi la Repubblica Ligure, che pose fine al vecchio regime oligarchico. Anche la Repubblica di Venezia cedette all’avanzata napoleonica, il 12 maggio 1797 il Maggior Consiglio abdicava e il 16 maggio si insediavano i nuovi rappresentanti della municipalità, analoga a quella che si erano costituite a Padova e a Vicenza.
Ma il Trattato di Campoformio, il 17 ottobre 1797, con il quale la Francia cedette Venezia all’Austria e la maggior parte della terraferma, in cambio delle isole Ionie e dei possedimenti veneziani in Albania, deluse i patrioti filogiacobini, che si sentirono traditi da Napoleone.
Le repubbliche si dotarono subito di una Costituzione, che redassero in alcuni casi sul modello francese dell’anno III, in altri i patrioti fecero inserire degli articoli ispirati alla Costituzione francese del 1793 e disposizioni proposte per aspirazioni locali. Non dobbiamo dimenticare che per tutto il XVIII secolo l’Italia era stata percorsa da dibattiti sul diritto pubblico e sulle costituzioni. Il granduca Leopoldo di Toscana su indicazioni di insigni giuristi stava per promulgare una costituzione moderna se non fosse intervenuto il veto dell’Austria. Alcune costituzioni furono sottoposte al referendum popolare e discusse in assemblee pubbliche largamente rappresentative e redatte da comitati di giuristi e di uomini politici. La Costituzione Romana fu redatta da commissari francesi, sullo stesso modello della Costituzione francese dell’anno III, quando a Roma fu proclamata la Repubblica, ad opera dei giacobini romani sostenuti dall’armata francese.
Tutte queste costituzioni proclamavano la libertà e l’uguaglianza dei diritti, abolivano il regime feudale e i diritti signorili, sopprimevano la nobiltà e i privilegi del clero, abolivano le corporazioni. La Costituzione Napoletana sanciva una mutua assistenza tra i cittadini e i poveri ed in particolare dichiarava l’importanza dell’istruzione per tutti. Inoltre la Repubblica Napoletana prevedeva una corte costituzionale, l’assemblea degli efori, che aveva come incarico di esaminare l’osservanza della Costituzione. I giacobini italiani aspiravano all’unificazione delle varie repubbliche in una sola e alla costituzione di una medesima patria repubblicana, suscitando i sospetti del Direttorio, che cercava di annullare la loro influenza.
Nel Regno di Napoli, il 22 gennaio l’esercito francese entrò a Castel Sant’Elmo, dove i giacobini napoletani dal 20 gennaio si erano insediati. Il 23 gennaio, il generale Championnet, con i colpi d’artiglieria piazzati sugli spalti dello stesso Castel Sant’Elmo, poteva dirsi padrone di Napoli. Il giorno successivo il comandante francese riconosceva la costituzione della Re-pubblica e ne accettava il governo provvisorio con a capo Carlo Lauberg. L’incarico di redigere la Costituzione fu affidato al giurista Mario Pagano, con il quale collaborò Vincenzo Russo. Il governo repubblicano, nonostante la presenza del fiore dell’intelligenza meridionale, come dirà Croce, ebbe breve durata.
Alla partenza dei presìdi francesi, prima del generale Championnet e poi del suo successore Macdonald, il governo repubblicano si trovò abbandonato a se stesso, mentre le truppe rea-liste, guidate dal cardinale Ruffo, avanzavano minacciosamente, risalendo dalla Calabria. Il 19 giugno l’esercito della Santa Fede entrava a Napoli e troncava le resistenze dei giacobini, assediati nella fortezza di Castel Sant’Elmo.
Il 23 giugno fu sottoscritto un accordo dal cardinale Ruffo e i rappresentanti alleati, che garantiva la vita e l’onore delle armi ai giacobini napoletani, sia che volessero imbarcarsi per Tolone, sia che volessero rimanere a Napoli.
I patrioti napoletani, nonostante l’accordo stipulato con il cardinale Ruffo, che aveva promesso loro salva la vita, furono mandati a morte, per l’intervento determinante della regina Maria Carolina, moglie del re di Napoli Ferdinando IV di Borbone, e con il consenso di Nelson. Nel sangue versato in Piazza del Mercato si spegneva il sogno della Repubblica Napoletana.
Vincenzo Russo, il 17 gennaio 1799, prima dell’ingresso in Napoli dell’Armata Francese, con un drappello di soldati fece ritorno a Palma[1] per salutare i suoi familiari e cercare di vincere la diffidenza dei suoi compaesani nei confronti del nuovo Stato repubblicano. Il nostro concittadino era stato lontano non solo da Palma, ma dal Regno di Napoli, in seguito ad un processo che lo aveva accusato di complotto contro la monarchia. Si era rifugiato prima a Genova, poi a Milano ed infine in Svizzera, da dove era ritornato a Milano, quando si formò la Re-pubblica Cispadana. A Palma, nel 1799, l’amministrazione comunale era retta dal Presidente Municipe Samuele Carrella e dai deputati Aniello Montanino, sacerdote D. Felice Caliendo, Giovanni Mascia e Michele Catalano, tutti vicini al Duca Giacomo Saluzzo di Corigliano, feudatario di Palma, coadiuvati dal Segretario Nicola Bosone, presidente della locale Corte Ducale.
L’attività di Vincenzo a sostegno dei nuovi principi di libertà e democrazia portarono a un cambiamento si-gnificativo, con l’elezione il primo marzo del nuovo Cassiere Vincenzo Nunziata di Giulio, fratello minore del sacerdote Luigi Nunziata, che aveva seguito Vincenzo Russo nell’esperienza della Repubblica Romana e che, nel periodo della prima restaurazione, sarà condannato all’esilio a vita dai Borboni.
Successivamente, nell’assemblea popolare del 16 marzo, fu eletta la nuova municipalità, secondo le disposizioni del Governo Provvisorio, caratterizzata dalla presenza di numerosi rap-presentanti del clero e dal ritorno come segretario di Pietro Russo, fratello primogenito di Vincenzo. Ai vertici di questa amministrazione si ritrovarono il presidente munìcipe, sacerdote Emiliano Ferraro e Vincenzo Nunziata di Giulio, munìcipe cassiere, sacerdote Felice Caliendo, Pietro Saviano, Angelo Cassese, Giovanni Man-zi, sacerdote Andrea Normandia e sacerdote Domenico Alfano.
Come era consuetudine del nuovo ordine politico, fu eretto in Piazza Mercato l’albero della libertà con la partecipazione collettiva dei cittadini cui fecero seguito feste, banchetti e una solenne processione conclusasi con la celebrazione del Te Deum nella parrocchia di S. Michele Arcangelo. Un altro albero della libertà fu eretto nella Piazza alli Ferrari ed un altro nel Quartiere di San Gennaro, nella piazza davanti al convento francescano.
Ma la situazione precipitò poco più di un mese dopo. Tra il 20 e il 23 aprile scoppiò una sommossa popolare organizzata e guidata da persone vicine a Giacomo Saluzzo di Corigliano; fu distrutto l’albero della libertà, eretto in Piazza Mercato (oggi Piazza De Martino) e quello in Piazza alli Ferrari e furono assaliti e devastati diversi edifici pubblici. L’insurrezione però scatenò l’ira del governo centrale, che pretese dagli amministratori di Palma il pagamento immediato di una multa di seimila piastre.
Anche in molti altri Comuni dell’intera area nolana e nel Vallo di Lauro scoppiarono sommosse popolari contro le municipalità repubblicane, accompagnate dal suono delle campane a martello delle principali chiese, con assalti e saccheggi agli edifici pubblici e con l’abbattimento dell’albero della libertà, considerato il simbolo principale del nuovo corso politico.
La contemporaneità degli avvenimenti, sia nel Feudo di Lauro che nel Feudo di Palma, fece pensare ad un’azione promossa e coordinata da Scipione Lancellotti Principe di Lauro e da Giacomo Saluzzo di Corigliano Duca di Palma.
Il De Nicola, infatti, annota nel suo diario sulle vicende del 1799 che entrambi furono arrestati il 26 aprile nelle loro rispettive abitazioni di Napoli.
L’intervento di Vincenzo Russo presso le autorità francesi servì a ridurre l’entità della contribuzione forzosa intimata dai francesi e a scongiurare la distruzione della città di Palma. Vincenzo Nunziata di Giulio, Cassiere della Municipalità, curò personalmente la ricostruzione degli alberi abbattuti sia in Piazza Mercato che in Piazza alli Ferrari, ma dopo pochi giorni la folla in tumulto li distrusse di nuovo.
La contribuzione forzosa e il saccheggio del palazzo ducale avevano suscitato l’ira della popolazione. Era il preludio della fine del breve governo repubblicano.
Il 29 maggio Samuele Carrella, alla testa di numerosi insorgenti, fece abbattere l’albero della libertà sia in Piazza Mercato sia in Piazza alli Ferrari e fece approntare tre bandiere con lo stemma dei reali, per annunciare alla popolazione l’approssimarsi delle truppe del Cardinale Ruffo: la prima fu esposta nella pubblica piazza, al posto dell’albero repubblicano, e festeggiata con notevole entusiasmo dal popolo e con lo sparo di mortaletti; la seconda fu portata nella città di Sarno dallo stesso Carrella; la terza da Matteo Mascia nella città di Nola.
Nello stesso tempo il Carrella, al posto dell’albero della libertà, al centro di Piazza Mercato, fece erigere su di un altarino in muratura una croce in legno, e con i fondi municipali costituì un manipolo di guardie, impiegato per il combattimento di giorno e notte contro i ribelli del Re per i paesi con vicini.
Diversi cittadini palmesi furono, infatti, impegnati in varie operazioni militari dall’assedio di Torre Annunziata, alla repressione di truppe di repubblicani nel territorio di Somma; ma anche al trasporto da Striano a Nola del fieno per la cavalleria dei Calabresi; altri, insieme a Nicola di Prisco, portarono a Napoli alcuni pezzi di artiglieria, utilizzati nell’assalto finale alla capitale.
Nel mese di luglio la Truppa a Massa, comandata dal Capitano Giovanni Mascia e dal suo agiutante Francesco Carrella alias Cicciotto, era acquartierata nella Real Villa di Portici, anche con il compito di arrestare i rei di stato.
Il 5 giugno passò per Palma, diretto a Caserta, il Colonnello Vito Nunziante con un reggimento di 400 soldati, accolto con entusiasmo dal popolo, dagli amministratori e dal clero che portò in pro-cessione il Santissimo Sacramento.
Il periodo di anarchia e di confusione non era finito ed all’inizio di agosto si verificarono diversi fenomeni di diserzione, favoriti anche dalla presenza nella zona di repubblicani ricercati. Il 31 agosto il Sergente Rafaele Bruno con dodici soldati a cavallo si portò a Palma per contrastare la presenza di giacobini e malviventi presenti sul territorio ed il 13 settembre è ancora presente, per lo stesso motivo, un altro drappello di cavalleria, guidato dal sergente dei fucilieri di montagna, Saverio Squillante. Il Commissario Generale della Campagna Michele de Curtis il 26 ottobre convocò tutti gli amministratori di Palma a Nola, preoccupato per la presenza nel territorio di diversi pubblici delinquenti.
Dopo la caduta della Repubblica in tutto il Regno ebbe inizio la persecuzione realista nei confronti dei rivoluzionari e dei loro familiari ed anche i fratelli di Vincenzo Russo subirono dure con-danne. Il fratello primogenito Pietro fu arrestato e trasferito nell’isola di S. Stefano, dove patì un carcere durissimo. Il fratello Gaetano, medico chirurgo nell’esercito repubblicano ed attivo patriota, fu arrestato il 9 settembre del 1799 e condotto nel carcere dei Granili al Ponte della Maddalena. Gaetano Russo fu giudicato dalla Giunta dei Generali e inviato nel carcere dei Granili. Il fratello Giuseppe, avvocato, subì la stessa sorte e tutti gli altri familiari furono sottoposti all’ira della popolazione palmese, che ne assaltò e saccheggiò l’abitazione, ubicata alla sommità del vicoletto che oggi porta il suo nome.
La madre Mariangela Visciano riuscì a fuggire attraverso giardini privati e a nascondersi in un pollaio in località Casa Caliendo, senza riuscire ad evitare l’aggressione di inaudita violenza di alcune donne.
L’indulto reale, promulgato il 26 settembre 1801, e il successivo dispaccio reale del 4 giugno 1802, posero fine a questa fase caotica di repressione nei confronti dei rivoluzionari condannati e delle loro famiglie.
Maria Maddalena Nappi
(Gruppo Archeologico Terra di Palma)
Russo rientra a Napoli nel gennaio 1799 in qualità di medico del 101° reggimento della milizia francese sotto il comando del generale Championnet. Il re intanto ha abbandonato la città ed è fuggito a Palermo con la sua famiglia, portando con sé il tesoro reale. Appena è nel regno, il 17 gennaio, assieme al fratello Gaetano corre a Palma per rivedere i suoi familiari ed amici dopo quattro anni e cerca di persuadere i suoi concittadini ad accettare il nuovo corso storico rivoluzionario, parlando loro in piazza sopra un poggiuolo, dove si poneva il pane del forno pubblico.
Il 22 gennaio 1799 è a Napoli quando, vinta la resistenza del popolo napoletano, i Francesi e i rivoluzionari entrano in Castel Sant’Elmo e proclamano la nascita della Repubblica Napoletana. Russo prende casa in affitto nell’odierno Vico storto al Purgatorio, una traversa di Via dei Tribunali. Partecipa con fervore e dedizione alla vita della Repubblica, ricoprendo incarichi di grande rilievo e distinguendosi per le sue doti di oratore. Il 10 febbraio è nominato vigilatore della Sala d’istruzione pubblica, ubicata nell’ Università degli Studi, nella quale richiede sia posto un busto di Gaetano Filangieri, autore della Scienza della Legislazione.
Tra i suoi principali interventi, molti dei quali apparsi sul Monitore Napoletano e sul Venditore Repubblicano, è da ricordare quello sull’abolizione della feudalità. Il vivace dibattito vede contrapposti due distinte posizioni: quella dei moderati, i quali traggono evidenti vantaggi dal sistema feudale e quella degli intransigenti, tra le cui file è schierato anche il Russo. Il 15 aprile 1799 il rimpasto di governo porta Russo alla Commissione Legislativa. In tale organo egli si fa promotore il 17 aprile di una proposta di legge a favore dei cittadini poveri: la riduzione a 50 ducati, invece dei 250 decisi due mesi prima, degli stipendi per le cariche governative e i pubblici funzionari. Propone anche un libro Dell’amore e della patria per coloro i quali, potendo, volessero rinunziare al soldo e un altro Dei doveri del cittadino, che contenga i nomi di coloro che per i loro bisogni richiedano un aumento di salario. Una retribuzione quindi non secondo il merito, ma secondo i bisogni primari.
Il 23 aprile Russo si dimette dalla Commissione per l’ostruzionismo praticato da una parte riguardo all’abolizione della legge feudale e al mancato accoglimento delle sue proposte.
Tra il 26 e il 30 aprile si trova nella sua Palma quando vi giunge la colonna del generale Schipani, che, dopo aver saccheggiato Lauro, dove aveva incendiato anche il castello del principe Lancellotti, per le insorgenze borboniche, vuole punire anche i palmesi. Russo, che parlava il francese, va loro incontro a Casola e riesce a persuaderli a desistere dal loro proposito. La sua intermediazione salva il paese e dalla reazione dei soldati e dall’imposizione di una tassa di 6 mila ducati.
L’intransigenza che guida la sua attività pubblica governa anche la sua vita privata. Soleva accontentarsi del minimo necessario alla sopravvivenza, dormiva su un letto molto modesto, faceva spesso a piedi il cammino tra Palma e Napoli, provvisto soltanto di poco pane e qualche castagna.
Raccontano che, prima di lasciare il governo, tornando a casa dal Parlamento, in Piazza dello Spirito Santo, si imbatté in un venditore di scagnuozzoli, così volgarmente chiamato a Napoli il pane di granone con uva passa. Mentre ne comprava un paio di grani, lo vide un altro rappresentante del popolo, che gli disse: “Come, Vincenzo Russo si mangia questo pane?”. “E che differenza c’è, risponde tranquillo, tra me e colui che lo mangia per bisogno?”.
Il letterato e patriota Giuseppe Ricciardi scrive anche di aver ascoltato direttamente dalla madre Luisa Granito, amica delle sorelle francesi Prevetot, che una di esse “era focosamente amata da Vincenzo Russo, anzi promessagli sposa”. Una notizia ripresa da Benedetto Croce, il quale aggiunge che la giovinetta di cui Vincenzo era innamorato si chiamava Aurora e viveva nella casa della sorella vedova assieme al padre. In questo periodo Russo cura anche una nuova edizione dei suoi Pensieri politici, ma, quando si era alla fine della stampa dei fogli e della rilegatura, il tipografo, cui si era affidato, preoccupato per l’ormai imminente vittoria realista, manda ogni cosa all’aria e dà fuoco alle stampe.
Nel mese di giugno le sorti della Repubblica Napoletana sembrano già compromesse, causa i dissidi interni tra i rivoluzionari di diversa estrazione. L’esercito sanfedista, guidato dal cardinale Ruffo, avanza su Napoli. Il governo cittadino istituisce la Guardia Nazionale. Russo si batte con forza durante gli scontri del 13 e del 14 giugno presso il Ponte della Maddalena. Benché pregato insistentemente dal sacerdote Nunziata di ritirarsi, solo quando vede che i nemici gli sono addosso ed è inutile ogni resistenza si nasconde sulla spiaggia dietro i frantumi di una barca. Scovato è condotto in un capannone dove subisce le violenze del nemico e di seguito, denudato, è gettato in una sala di fronte ai Granili con trecento cittadini tra i quali Vincenzo Cuoco e il sedicenne Guglielmo Pepe. Da qui è trasferito in uno degli angusti e sporchi depositi dell’edificio. Anche se in catene, non cessa di consolare i compagni, di parlare dei nuovi ordinamenti sociali che avrebbero migliorato la condizione dell’umanità e, con l’entusiasmo che desta con le sue parole, fa dimenticare la fame e la sete che in quella stanza umida e fredda patiscono i suoi compagni. Il 21 giugno si decide la capitolazione di Castel Sant’Elmo, il 9 luglio il re ritorna a Napoli. Russo rimane nei Granili fino al 12 agosto, poi passa sulla nave Stabia e da qui è condotto e rinchiuso nell’orribile carcere della Vicaria, una fossa senza aria e senza luce, dove l’umidità intensa e l’aria mefitica spezzavano le membra.
Tra il 17 agosto e il 18 settembre è sottoposto a giudizio e condannato alla pena capitale per impiccagione con la confisca dei beni e trasferito nelle segrete di Castel S. Elmo. Il giorno successivo alla proclamazione della sentenza è condotto nelle Carceri di Castel Nuovo e il 16 novembre è trasferito nella Cappella del Castello del Carmine. La sera di lunedì 18 novembre 1799, lettagli la sentenza di morte, non muta colore il suo viso, chiede solo di bere un po’ di vino obbligando l’assistente a bere alla salute dei patrioti nascosti e dorme tranquillamente. Parla di politica ai compagni di prigione e, nello staccarsi da loro, dice: “Domani avrete più spazio, dormivamo troppo stretti”. Non vuole alcun conforto religioso Quando gli si presenta il comandante del Castello che lo chiama amico e vuole esortarlo a morire cristianamente, Vincenzo, scattando fieramente, dice: “Tu, assassino, ti dici mio amico. Tu seguace di Ruffo mi parli di religione. Oh! per carità, fammi condurre al supplizio, questo è l’unico oggetto dei miei desideri”.
La mattina seguente nella Piazza Mercato, nei pressi della chiesa dove era detenuto, Vincenzo viene portato al patibolo. Prima di essere impiccato si rivolge alla plebe dicendo:
“Questo non è per me luogo di dolore, ma di gloria. Qui sorgeranno i marmi ricordevoli dell’uomo giusto e del saggio. Pensa, o popolo, che la tirannide ti fa velo agli occhi, inganno al giudizio, essa ti fa gridare viva il male, muoia il bene; ma tempo verrà in cui le disgrazie ti renderanno la mente sana. Allora conoscerai quali sono i tuoi amici, quali i tuoi nemici. Sappi ancora che il sangue dei repubblicani è seme di Repubblica, e la Repubblica risorgerà quando che sia come dalle sue proprie ceneri la fenice più bella e possente”.
Interrotto più volte dal frastuono dei tamburi e dagli schiamazzi dei popolani, secondo Gioacchino Puoti, testimone dei fatti, le sue ultime parole sono: “Io muoio per la libertà. Viva la Repubblica”.
I sanfedisti, dopo l’esecuzione, ne oltraggiano il cadavere, che viene sepolto nello stesso giorno nella Congregazione di San Matteo al Lavinaio. Ma secondo altre versioni, viene gettato nelle fosse dietro le prigioni oppure riportato in chiesa e a notte fonda, come era uso per gli eretici, accompagnato in corteo dai padri incappucciati Bianchi con le torce di pece nera al Ponte della Maddalena da dove viene gettato giù presso il fiume Sebeto.
Aveva solo 29 anni.